
Il MOBBING, una battaglia che non si vince da soli.
Oggi si parla molto – ma mai abbastanza – di vessazioni sul posto di lavoro.
Gli ultimi dati disponibili, a cura dell’Ispesl (Istituto Superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro), risalgono a qualche anno fa e parlano di circa un milione e mezzo di lavoratori italiani vittime di mobbing.
A oggi manca ancora una legge sul Mobbing.
Come ormai noto, e come in più occasioni ribadito dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, il mobbing è un fenomeno complesso configurabile in presenza di una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolva in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
La prima sentenza italiana sul Mobbing viene pubblicata il 16 novembre 1999, Giudice del Lavoro di Torino, sebbene anche prima il Mobbing avesse fatto ingresso nelle aule di tribunale, “trasversalmente”.
La vittima di questo primo caso di Mobbing finito in Tribunale è una donna. Un dato che rimarrà invariato per lungo tempo.
La lavoratrice si ammala, “avendo contratto, in conseguenza delle intollerabili condizioni di lavoro e della situazione di segregazione patita, una grave forma di crisi depressiva, con frequenti stati di pianto e agorafobia, crisi senza precedenti nella sua storia personale.” “Nonostante la terapia farmacologica praticata, i sintomi lamentati non regrediscono, compromettendole definitivamente i rapporti interpersonali e sociali.“.
La dipendente è costretta alle dimissioni anzitempo ed è restia a cercare un nuovo impiego per la “paura di essere nuovamente inserita in ambienti lavorativi simili a quello che ha lasciato.”
La lavoratrice fa causa per il risarcimento del danno biologico.
Il Giudice ritiene l’azienda responsabile ai sensi e per gli effetti dell’art. 2087 codice civile sulla tutela delle condizioni di lavoro. Una responsabilità in questo caso omissiva, per non essersi adoperato il datore di lavoro, ad “impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti.” Il Giudice del 1999 mostra una sensibilità non comune; alcuni passaggi della sentenza sono così validi da essere ancora oggi attuali, purtroppo però il Giudice ritiene superflua la CTU medico-legale (oggi centrale in pressocché ogni causa sul Mobbing) e l’istruttoria si basa unicamente su prove testimoniali.
La ricorrente ha sofferto di “disturbi e stati patologici” mai avuti in precedenza, vedendo la stessa sfera familiare stravolta, mentre prima “la sua vita, anche in ambito familiare e segnatamente nei rapporti con il marito e i due giovani figli, è stata serena e si è svolta in modo del tutto normale e regolare”, per mesi dopo la cessazione del rapporto di lavoro ha avuto paura di trovare un nuovo impiego per evitare di trovarsi in una situazione analoga (tutto questo è scritto a chiare lettere nelle motivazioni della sentenza) e purtroppo l’unico risarcimento che Le viene riconosciuto è pari a soli Dieci milioni di vecchie lire.
Nonostante quindi la prima sentenza italiana sul Mobbing si sia pronunciata a favore della vittima l’azienda, inadempiente ai suoi obblighi ex art. 2087 c.c., vine a mala pena sfiorata dall’accaduto.
A oggi manca ancora una legge sul Mobbing.
La Giurisprudenza consolidatasi lungo tutto questo ultimo ventennio richiede una prova rigorosa nonché faticosa in capo al lavoratore.
La Corte di Cassazione (da ultimo sezione lavoro, 29 dicembre 2020, n. 29767) ha individuato quattro elementi che, ove sussistenti, rilevano ai fini della configurabilità della condotta lesiva.
- Innanzitutto, i comportamenti persecutori devono essere molteplici e devono essere posti in essere nei confronti della vittima in maniera miratamente sistematica e prolungata, con intento vessatorio. Ciò posto, gli stessi non devono necessariamente essere illeciti ma, se considerati singolarmente, possono anche essere leciti.
- In secondo luogo, dai predetti comportamenti deve derivare l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente.
- Il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore.
- Infine, deve essere dimostrato l’elemento soggettivo del mobbing, rappresentato dall’intento persecutorio (ex multis, Cass. civ., sez. lav., 10 gennaio 2012, n. 87; 27 dicembre 2011, n. 28692; 31 maggio 2011, n. 12048; 26 marzo 2010, n. 7382; 17 febbraio 2009, n. 3785; 31 maggio 2011, n. 12048).
A tale ultimo proposito, la Corte ha ulteriormente precisato che la necessità di dimostrare che i comportamenti posti in essere dal collega o dal superiore gerarchico siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, volto alla prevaricazione della vittima, deriva dal fatto che le plurime condotte illegittime non sono da sole sufficienti a integrare un’ipotesi di mobbing.
Sul punto va posto in evidenza che, nell’indicare i quattro elementi che caratterizzano il mobbing, si è detto che i comportamenti persecutori, se singolarmente considerati, possono anche essere leciti, senza che tale circostanza, da sola, sia idonea a escludere la sussistenza della condotta illegittima. Tuttavia, non bisogna sottovalutare la rilevanza che la legittimità dei comportamenti può assumere, laddove non si riesca a dimostrare l’intento persecutorio che li unifica.
Pertanto chi assume di aver subito la condotta vessatoria deve provare proprio tale intento persecutorio, che è l’elemento qualificante del mobbing. In difetto di elementi probatori di segno contrario, quindi, la legittimità dei singoli comportamenti può rilevare in maniera indiretta, in quanto sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta complessivamente considerata.
Se quindi, da un lato, in presenza di tutti i predetti requisiti anche la reiterazione di comportamenti di per sé leciti può integrare un’ipotesi di mobbing, dall’altro lato questa non necessariamente si configura se il datore di lavoro pone in essere più comportamenti singolarmente illegittimi ma manca la loro convergenza in un fine ultimo vessatorio.
Il mobbing, infatti, richiede un elemento psicologico ulteriore, che è il cosiddetto animus nocendi, il quale non solo rende vietati dei comportamenti che altrimenti sarebbero leciti, ma aggrava il significato giuridico e sociale di comportamenti che già sono vietati e altrimenti di per sé sanzionati dal nostro ordinamento.
Vi deve essere, insomma, un maggior danno e un intento di degrado che con il singolo atto compiuto dal lavoratore non si riuscirebbe a raggiungere.
Si tratta di una prova delicata e spesso difficile da raggiungere; ecco perché ancora oggi quella della vittima di mobbing sul lavoro appare come una tutela particolarmente problematica.
Rivolgersi subito a un professionista è fondamentale per le vittime di mobbing affinché, prima di tutto, non si sentano da sole, ma vengano guidate in un percorso che permette loro di affrontare con coraggio una situazione così delicata come quella della violenza psicologica sul lavoro.
Un lieto fine è sempre possibile, per chi sa di non essere solo in questa battaglia.
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