
Divieto di discriminazioni sul lavoro e persone Lgbtiq
Ancora oggi, purtroppo, nel nostro Paese assistiamo a episodi di discriminazione per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale e all’identità di genere; proprio in questi giorni si è sviluppato un acceso dibattito pubblico attorno all’argomento dell’omofobia e alla legge Zan – approvata alla Camera il 20 novembre 2020, ora al Senato -.
Vale quindi la pena richiamare all’attenzione di chi legge un’importante pronuncia della Corte di Giustizia Europea sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e sulla legittimazione attiva di un’associazione a difesa, nella fattispecie in questione, di lavoratori Lgbtiq, ad avviare un procedimento giurisdizionale volto proprio alla tutela e al rispetto delle condizioni di accesso al lavoro e all’occupazione, disciplinate, a livello internazionale, dalla Direttiva Comunitaria 2000/78.
Tale Direttiva, secondo la Corte di Giustizia, va interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale in virtù della quale un’associazione di avvocati , aventi quale scopo la Difesa in giudizio di persone di un determinato orientamento sessuale e la promozione della cultura e del rispetto dei diritti di tale categoria, possa esser legittimata a instaurare un procedimento giurisdizionale volto al rispetto degli obblighi derivanti da tale Direttiva ed eventualmente, qualora ne ricorrano le condizioni, ad ottenere il risarcimento del danno nel caso in cui si accerti una avvenuta discriminazione nei confronti di quella determinata categoria di persone, anche qualora non sia identificabile una specifica persona lesa.
E così le affermazioni di un noto avvocato italiano, ex parlamentare, secondo cui questi mai si avvarrebbe della collaborazione, nella sua impresa, di persone di un determinato orientamento sessuale, vengono considerate non soltanto omofobe, ma anche lesive della normativa richiamata, posta a tutela della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Il professionista asseriva infatti che l’assunzione di persone omosessuali nel suo studio legale “… turberebbe l’ambiente, sarebbe una situazione di grande difficoltà …”.
L’associazione Rete Lenford-Avvocatura per i diritti LGBTI ha pertanto agito in giudizio per l’accertamento della violazione della disciplina antidiscriminatoria relativa alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro. Il ricorso dell’associazione veniva accolto sia in primo che in secondo grado, entrambi i giudici di merito stabilivano che quanto affermato dal professionista, per la sua natura, per il suo contenuto e per il contesto in cui ci si trovava, non poteva in alcun modo costituire manifestazione del principio di libera espressione del pensiero, sull’assunto che la libertà di espressione non va considerata quale incondizionata ed assoluta ma il suo esercizio deve essere bilanciato con altri diritti e altre libertà di pari rango, quali il diritto alla dignità umana, all’identità personale all’uguaglianza e la libertà personale. La Cassazione, alla quale il soccombente è ricorso, ha sospeso il procedimento ritenendo pregiudiziale, e quindi necessaria, per la definizione del giudizio, l’interpretazione del diritto dell’Unione Europea da parte della Corte di Giustizia.
Alla Corte si chiedeva una pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della nozione di “condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro” contenuta nella direttiva richiamata (artt. 2, 3, 9).
Diverse poi erano le questioni giuridiche da affrontare: ad esempio quella relativa al fatto che non era individuabile nella vicenda una persona determinata che avesse subito la discriminazione, oppure la problematica concernente la legittimazione attiva in giudizio della Associazione di avvocati volta alla tutela delle persone Lgbtiq, se questa cioè potesse quindi considerarsi rappresentativa di interessi collettivi, o, infine, l’effettività o meno della discriminazione, posto che il professionista rendeva le Sue dichiarazioni senza far alcun riferimento a una procedura di assunzione esistente o comunque in corso in quel momento.
La Corte ha stabilito che tali dichiarazioni, rese nel corso di una trasmissione audiovisiva, rientravano nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78, che sancisce il principio generale di non discriminazione, ormai sancito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e, nello specifico, della nozione di “condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro”, art. 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva, e ciò anche se al momento del rilascio di tali dichiarazioni non vi fosse in corso alcuna procedura di selezione di personale, purché, tuttavia, il collegamento tra tali dichiarazioni e la politica di assunzione del datore di lavoro, non fosse del tutto ipotetico.
Ha poi ribadito che la libertà di espressione e d’informazione non è un diritto assoluto e il suo esercizio può incontrare limitazioni che rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale riconosciuti dall’Unione o all’esigenza di tutela di diritti e di libertà altrui; nel caso di specie tali condizioni sono soddisfatte dato che le limitazioni scaturiscono direttamente dalla direttiva riferita, c.d. “antidiscriminazione” e si applicano unicamente al fine di raggiungere gli obiettivi di quest’ultima, ossia garantire il principio della parità di trattamento in materia di occupazione di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale. L’ingerenza nell’esercizio della libertà di espressione non va oltre quanto è necessario per realizzare gli obiettivi di tale direttiva, vietando unicamente le dichiarazioni che costituiscono una discriminazione in materia di occupazione di lavoro e inoltre tali limitazioni risultanti dalla direttiva sono necessarie per garantire i diritti in materia di occupazione e di lavoro di cui dispongono le persone considerate da tale direttiva.
La Corte ha infine giudicato che la direttiva antidiscriminazioni non osta alla normativa italiana in virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità consiste nel difendere in giudizio le persone aventi un determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro, automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva ed eventualmente ad ottenere il risarcimento del danno nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa. A tal proposito la Corte a precisato che sebbene la direttiva non imponga il riconoscimento di una simile qualità a un’associazione come quella di cui trattasi, qualora non sia identificabile alcuna persona lesa, essa prevede la possibilità per gli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli alla tutela del principio della parità di trattamento rispetto a quella in essa contenute spetta pertanto gli Stati membri che hanno operato tale scelta decidere a quali condizioni l’associazione possa avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far constatare l’esistenza di una discriminazione e a sanzionarla.
La vicenda richiamata va considerata come un esempio paradigmatico di discriminazione diretta sul lavoro in ragione dell’identità e orientamento sessuale, e vale la pena ricordare che detti fenomeni discriminatori in ambito lavorativo possono avere pesanti ripercussioni sulla vita delle persone, ciò perché il lavoro va inteso non soltanto quale strumento per procurarsi le risorse per il proprio sostentamento ma anche come espressione della propria personalità e della propria identità, anche al fine di costruire una rete di proprie relazioni sociali.
[foto via Twitter.com]
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